
“Da quando Baggio non gioca più […] non è più domenica” cantava Cesare Cemonini. E in effetti, da quando il 16 maggio 2004 il Divin Codino ha salutato il mondo del calcio giocato, per un bel po’ le domeniche allo stadio, i ritrovi davanti al televisore in attesa del campionato non sono più stati gli stessi.
Chiunque ami questo sport, a prescindere dal tifo, non può dimenticare le prodezze di Roby. Da piccola vedevo le partite alla tv con il mio papà e sono sempre stata affascinata dall’eleganza con cui Baggio volteggiava in campo con la palla tra i piedi. Da come il suo codino ricciolo e crespo fluttuava con la stessa eleganza con cui lui saltava gli avversari. La sua umiltà, dentro e fuori il rettangolo verde, la voglia di farcela, la capacità di riprendersi da infortuni – tanti, troppi, - da polemiche e scontri hanno fatto di lui un campione amato e stimato. Per questo non si può dimenticare quel giorno di 17 anni fa. Il momento in cui gli astri si sono allineati, creando una giornata perfetta per l’ultimo saluto di una stella del pallone.
16 maggio 2004
Il Brescia di Roberto Baggio è ospite del Milan campione d’Italia a San Siro. E quale teatro migliore della Scala del Calcio per salutare il pallone d’oro 1993? Le Rondinelle sono salve da un po’, i rossoneri sono freschi di scudetto conquistato matematicamente due settimane prima nello scontro diretto con la Roma. Tutto lo stadio è lì per salutare Baggio. Tutto lo stadio si alza in piedi per rendergli onore.
E quello stadio Baggio lo conosce bene. San Siro è stato la sua casa. Vi ha giocato vestendo entrambe le maglie milanesi. Ma al momento del saluto questi dettagli non contano per i campioni come lui. Ci sono giocatori che ti entrano nel cuore, per cui provi una simpatia e una stima innata, al di là dello stadio, al di là del tifo, al di là dei colori della maglia che indossano in quel momento. Al minuto 84 Roby esce dal campo. Una mano levata verso il cielo, in segno di saluto. Poi la commozione mal celata. Niente esagerazioni, niente tragedie, come sempre. Come nel suo stile.
Un nome, un destino
Il suo destino di campione Baggio se l’è costruito nel tempo, con sacrificio e determinazione, caratteristiche che gli hanno permesso di superare i continui infortuni. Ma, se mi concedete di essere romantica, il destino di campione Baggio lo aveva anche nel nome e nel soprannome con cui lo chiamavano da ragazzino. Partiamo dal nome: Roberto. Come Roberto Boninsegna, il grande numero 9 che all’epoca della nascita del Divin Codino giocava nel Cagliari e che soli tre anni dopo si sarebbe consacrato vicecampione del mondo a Messico ’70.
Ma ciò che più fa sorridere è il modo in cui gli amici chiamavano il piccolo Baggio: Guglielmo Tell. Di certo non perché si divertisse a scoccare frecce nell’intento di colpire delle mele sopra le loro teste, ma per la precisione. Non mele, ma lampioni. Non frecce, ma palloni. Roberto Baggio puntava un lampione, lo indicava agli amici, preparava il tiro e… bam! Preso! Un allenamento che faceva arrabbiare i suoi compaesani, ma che nel tempo ha portato i suoi frutti nelle incredibili punizioni con cui spiazzava i portieri e nell’eleganza con cui volava in campo scartando i difensori avversari, un po’ come faceva da piccolo quando scappava dal brigadiere che lo rincorreva per le sue marachelle.
I soprannomi
E di nomi e soprannomi Baggio ne ebbe diversi in carriera. Il più celebre è quello con cui l’ho chiamato fin qui: Divin Codino. Fu Gianni Brera a battezzarlo così, perché in campo Baggio era davvero qualcosa che andava oltre l’umano, capace di mettere – per citare sempre Brera – “il dribbling anche nel caffelatte”. Poi ci fu il soprannome di Raffaello, regalatogli dall’Avvocato Agnelli per celebrare le sue pennellate che finivano dritte in rete. Un soprannome affettuoso che precedette quello meno galante di “Coniglio Bagnato” al Mondiale ’94. Ma forse è bello pensare che fu proprio quell’intervento poco carino dell’Avvocato, dopo una performance non ottimale di Baggio, a dare al campione la motivazione giusta per svoltare e diventare il vero protagonista di un Mondiale che l’Italia terminerà al secondo posto dopo una finale persa ai rigori contro il Brasile. La finale del famoso rigore sbagliato proprio da Baggio, un errore che però non può e non deve cancellare quanto fatto dall’attaccante azzurro fin lì.
I numeri
643 partite da professionista con i club. Dall’esordio con la maglia del Vicenza, al passaggio all’amata Fiorentina, il club che ha scommesso su di lui nonostante il fisico di cristallo e che lui ha ripagato con amore, determinazione e coraggio. Poi, il passaggio alla Juventus. Un trasferimento sofferto, la città di Firenze in rivolta: scontri armati, arresti e un Roberto Baggio triste e frustrato costretto a spostarsi a Torino. Per di più c’è l’episodio del 6 aprile 1991, quando in Fiorentina-Juve, Baggio si rifiutò di calciare il rigore e, uscendo dal campo, indossò una sciarpa viola lanciata dai suoi vecchi tifosi.
Ma nonostante tutto, Baggio rimane il campione dell’Italia e degli italiani. Andrà a Milano, prima in rossonero, poi tra le fila dell’Inter, con una breve e dolce parentesi a Bologna, fino al Brescia per il finale di carriera. Duecentonovantuno gol segnati con maglie dei club. Impossibile contare gli assist.
Baggio è stato semplicemente Divino per chiunque ami questo sport. Baggio è il ragazzino della porta accanto, quello che colpiva i lampioni, diventato campione, ma rimasto umile nell’animo. Baggio è storia del calcio. È quello che da quando non gioca più “non è più domenica”.
di Martina Soligo